Meta vuole trasformare i creator in “inventory” automatizzando le partnership con l’IA, ma questo solleva interrogativi sulla privacy, il consenso e il controllo dei dati da parte degli utenti.
Se c’è una parola che riecheggia nei corridoi di Menlo Park ogni volta che un product manager deve giustificare un nuovo bonus trimestrale, quella parola è “frizione”.
Nella neolingua della Silicon Valley, la frizione è il nemico: è quel fastidioso intervallo di tempo che passa tra il desiderio di un inserzionista e il prelievo dalla sua carta di credito, o quel momento di riflessione umana che intercorre tra un creator e la firma di un contratto.
Meta, nella sua infinita benevolenza algoritmica, ha deciso oggi di dichiarare guerra a questi ultimi residui di inefficienza umana, lanciando una suite di aggiornamenti basati sull’intelligenza artificiale per i suoi strumenti di partnership che promette di “streamlinare” — orribile anglicismo per dire automatizzare fino allo sfinimento — il modo in cui i brand trovano e usano i volti degli influencer.
Non stiamo parlando di una semplice dashboard ridisegnata. Quello che è stato svelato oggi, 11 dicembre 2025, è il tentativo strutturale di trasformare le relazioni umane (o para-sociali) in asset liquidabili alla velocità della luce.
L’idea è semplice e terrificante allo stesso tempo: utilizzare l’IA per scansionare milioni di contenuti generati dagli utenti (UGC), individuare quelli che citano un brand e, tramite nuovi hub e API, servirli su un piatto d’argento agli inserzionisti affinché possano trasformarli in “Partnership Ads”.
Se prima serviva un talent manager, una stretta di mano o almeno una lunga catena di email per decidere una collaborazione, ora basta un algoritmo di raccomandazione.
E come sappiamo, quando un algoritmo decide chi deve guadagnare e chi no, la trasparenza è la prima vittima collaterale.
Ma perché Meta ha tanta fretta di rimuovere l’elemento umano dall’equazione?
La risposta, come sempre, si trova seguendo i soldi e osservando chi trae davvero vantaggio da questa “efficienza”.
L’industrializzazione dell’influencer
Dietro la facciata scintillante delle nuove funzionalità — che includono un “Partnership Ads Hub” potenziato dall’IA e codici di autorizzazione semplificati — si nasconde una realtà economica brutale. Il mercato dei creator non è più un hobby per ragazzini annoiati, ma un settore industriale che muove capitali enormi.
Secondo le proiezioni più recenti dell’IAB, stiamo parlando di una spesa pubblicitaria sui creator che negli Stati Uniti dovrebbe raggiungere i 37 miliardi di dollari quest’anno, segnando una crescita del 26% su base annua. Meta non può permettersi che questi budget finiscano nelle tasche di agenzie terze o piattaforme concorrenti come TikTok; deve internalizzare ogni singolo passaggio della transazione.
L’approccio è chirurgico: trasformare i creator in “inventory”, ovvero spazi pubblicitari viventi.
Georgina Whalley, Vice Presidente del Global Business Marketing di Meta, ha presentato la novità con il classico entusiasmo corporativo che maschera la riduzione delle persone a metriche di performance:
Integrando l’intelligenza artificiale nei nostri strumenti di scoperta e gestione dei creator, puntiamo a rimuovere l’attrito dal processo di partnership, in modo che brand e creator possano concentrarsi maggiormente sulla creazione di ottimi contenuti e sull’ottenimento di risultati.
— Georgina Whalley, Vice Presidente Global Business Marketing presso Meta
“Rimuovere l’attrito” significa, in termini pratici, rendere l’approvazione di una campagna pubblicitaria facile quanto mettere un like. I nuovi strumenti permettono ai brand di vedere non solo chi sta parlando di loro, ma anche come quei contenuti stanno performando organicamente, suggerendo poi quali “promuovere” a pagamento.
Il confine tra un’opinione genuina di un utente e uno spot pubblicitario, già labile, viene definitivamente cancellato.
Se un tuo post su una crema idratante diventa virale, l’algoritmo lo segnala al brand, che può immediatamente chiederti il permesso di trasformarlo in ad.
Sembra un’opportunità, vero? Eppure, c’è un rischio sottile: la pressione a conformarsi a ciò che l’algoritmo ritiene “vendibile”.
Il creator non crea più per la sua community, ma per l’audizione perpetua di fronte all’IA di Meta, sperando di essere pescato dalla rete a strascico degli inserzionisti. E questo ci porta dritti nel cuore del problema della privacy e del controllo dei propri dati.
Il consenso diventa un codice a barre
La parte più inquietante dell’annuncio riguarda la gestione dei permessi. Meta ha introdotto un sistema di “codici di autorizzazione” che i creator possono condividere con gli inserzionisti. Sulla carta, è una semplificazione burocratica. Nella pratica, rischia di essere una trappola normativa, specialmente in un contesto europeo dove il GDPR richiede un consenso informato, specifico e inequivocabile.
Quando un creator, magari alle prime armi (e ricordiamo che Meta ha aperto queste funzioni anche ai profili in “Modalità Professionale”, una platea di 100 milioni di utenti giornalieri), condivide un codice, comprende appieno le implicazioni legali di come la sua immagine verrà utilizzata, manipolata o targettizzata dall’IA?
L’automazione spinge verso la standardizzazione dei contratti, dove le sfumature e le tutele personali vengono sacrificate sull’altare della velocità. Jasmin Iordanidis, analista principale presso Insider Intelligence, ha colto perfettamente il punto focale della strategia di Meta:
Per gli inserzionisti, gli strumenti che semplificano le partnership con i creator e forniscono dati sulle prestazioni più trasparenti possono far sembrare l’influencer marketing più simile a un canale mediatico misurabile, che è ciò che molti direttori marketing stanno cercando in questo momento.
— Jasmin Iordanidis, Principal Analyst presso Insider Intelligence
“Simile a un canale mediatico misurabile”. Ecco il punto. Meta vuole che le persone siano prevedibili quanto i banner pubblicitari. Ma le persone hanno diritti, cambiano idea, possono non voler essere associate a un brand in determinati contesti.
L’IA di Meta, addestrata su miliardi di datapoint, promette di abbinare il brand “perfetto” al creator “perfetto”. Ma chi controlla i criteri di questo abbinamento?
Se l’algoritmo decide che il mio profilo è ideale per vendere integratori dietetici dubbi solo perché ho postato una foto in palestra, ho davvero il controllo della mia identità digitale, o sono solo un ingranaggio in un meccanismo di targeting comportamentale?
C’è poi l’aspetto della dipendenza tecnologica. I creator che si affidano a questi strumenti “nativi” si legano mani e piedi all’ecosistema di Zuckerberg. Se domani l’algoritmo cambia e decide che i tuoi contenuti non sono più “brand-safe” o non convertono abbastanza secondo i nuovi standard della Advantage+ suite — quella suite di automazione pubblicitaria end-to-end che ha superato i 60 miliardi di dollari di fatturato annuo — sparisci dal radar commerciale.
Non hai costruito una relazione con il brand; hai affittato uno spazio sul server di Meta.
Chi decide cosa vediamo?
L’ultimo tassello di questo puzzle distopico è l’impatto sull’utente finale, cioè noi. Quando scorriamo il feed, vediamo contenuti che l’IA ritiene “rilevanti”. Con l’integrazione di questi nuovi strumenti, la definizione di “rilevanza” si sposta ulteriormente verso “potenziale di monetizzazione”.
L’algoritmo non privilegerà il contenuto più autentico o interessante, ma quello che è più facilmente convertibile in un Partnership Ad.
È il trionfo della pubblicità programmatica applicata alle facce delle persone. Meta sostiene che questo porta a una riduzione del 19% dei costi di acquisizione per i brand. Un numero impressionante per gli azionisti, ma che solleva una domanda fondamentale: chi sta pagando la differenza?
La stiamo pagando noi con la nostra attenzione, bombardati da contenuti ibridi che eludono i nostri filtri mentali anti-pubblicità perché provengono da “persone reali”. E la stanno pagando i creator, costretti a diventare sempre più professionalizzati, sterili e conformi alle linee guida dei brand per non essere scartati dalla macchina selettiva dell’IA.
Siamo di fronte all’ennesimo capitolo in cui la tecnologia viene venduta come strumento di empowerment (“più opportunità per tutti i creator!”), mentre nei fatti agisce come strumento di accentramento del potere. Meta si pone come l’intermediario inevitabile, il gabelliere che riscuote il pedaggio su ogni interazione sociale che abbia anche solo un vago profumo di commercio.
Mentre i regolatori europei si affannano a capire come applicare l’AI Act a queste dinamiche, la realtà sul campo corre molto più veloce delle gazzette ufficiali. La fusione tra contenuto organico e inserzione pubblicitaria è ormai quasi completa, sigillata da un’intelligenza artificiale che non dorme mai e che ha un solo obiettivo: massimizzare il rendimento di ogni singolo pixel.
Resta solo da chiedersi: in un mondo dove ogni nostra passione, hobby o momento di vita quotidiana può essere istantaneamente scansionato, prezzato e venduto a un inserzionista tramite un codice API, esiste ancora uno spazio per l’esperienza umana che non sia, in ultima analisi, una transazione commerciale in attesa di approvazione?

