Amazon investe 35 miliardi di dollari in India: una colonia digitale?

Amazon investe 35 miliardi di dollari in India: una colonia digitale?

L’investimento di Amazon in India non è solo un’operazione finanziaria, ma una strategia per controllare l’infrastruttura digitale del paese, sollevando preoccupazioni sulla sovranità dei dati e la concorrenza locale.

Quando si leggono cifre con nove zeri, la reazione immediata è spesso un misto di stupore e deferenza.

Trentacinque miliardi di dollari.

È questa la somma, titanica, che Amazon ha messo sul piatto della bilancia indiana. L’annuncio, arrivato come un fulmine a ciel sereno in questo dicembre del 2025, non è solo una mossa finanziaria: è una dichiarazione di guerra geopolitica e tecnologica.

Mentre noi in Europa ci arrovelliamo (giustamente) su ogni virgola dell’AI Act e sulle implicazioni del GDPR, dall’altra parte del mondo si sta consumando una corsa all’oro che ha molto poco a che fare con la filantropia e tutto a che fare con il controllo dell’infrastruttura digitale del prossimo decennio.

Amazon non sta “donando” soldi all’India. Amazon sta comprando un ecosistema.

La promessa di creare milioni di posti di lavoro e di digitalizzare le piccole imprese suona meravigliosa nelle press release patinate, ma nasconde un sottotesto che chi si occupa di privacy e sorveglianza digitale conosce fin troppo bene: chi controlla il cloud e i dati di una nazione, ne controlla, di fatto, il futuro economico e sociale. E in India, con una popolazione di 1,4 miliardi di persone sempre più connesse, i dati sono il nuovo petrolio, pronti per essere raffinati dalle reti neurali di Seattle.

La narrazione ufficiale è impeccabile, quasi commovente. Si parla di “trasformazione digitale”, di “empowerment” per i piccoli commercianti e di esportazioni. Ma se grattiamo via la vernice dorata del marketing, emerge un quadro più complesso, fatto di dipendenza tecnologica, di algoritmi opachi e di una concentrazione di potere che farebbe impallidire i monopoli del secolo scorso.

La domanda che nessuno sembra voler fare ad alta voce è: cosa chiede Amazon in cambio di questi 35 miliardi?

La risposta, temo, non piacerà ai sostenitori della sovranità digitale.

Una pioggia di miliardi (o una gabbia dorata?)

Per capire la portata dell’evento, bisogna mettere i numeri in prospettiva. Non stiamo parlando di un investimento isolato, ma di una escalation che fa impallidire le manovre dei concorrenti.

L’azienda ha annunciato un piano di investimenti superiore ai 35 miliardi di dollari in India entro il 2030, una cifra che doppia quasi letteralmente le promesse fatte da Microsoft (17,5 miliardi) e Google (15 miliardi). È una mossa da “piglia tutto”. Amit Agarwal, Senior Vice President per i mercati emergenti di Amazon, ha delineato la strategia con parole che meritano di essere analizzate attentamente:

Prevediamo di investire oltre 35 miliardi di dollari in tutte le nostre attività in India entro il 2030, basandoci sui 40 miliardi di dollari che abbiamo già investito dal 2010, per accelerare la digitalizzazione guidata dall’intelligenza artificiale, espandere le esportazioni e creare milioni di posti di lavoro.

— Amit Agarwal, Senior Vice President, Emerging Markets presso Amazon

Notate l’enfasi sulla “digitalizzazione guidata dall’intelligenza artificiale”. Non è un dettaglio decorativo.

L’India non è solo un mercato di consumatori per Amazon; è un gigantesco laboratorio di addestramento per i suoi modelli di AI. La manodopera a basso costo, necessaria per etichettare i dati e “pulire” gli algoritmi, abbonda. E le normative sulla privacy, sebbene l’India abbia recentemente introdotto il Digital Personal Data Protection Act, sono storicamente meno stringenti e più flessibili rispetto al “groviglio” burocratico europeo del GDPR.

Investire in India significa poter dispiegare tecnologie di sorveglianza logistica, analisi predittiva dei consumi e riconoscimento biometrico su una scala inimmaginabile altrove. Quando Agarwal parla di “digitalizzare” le piccole imprese, sta dicendo che Amazon vuole diventare l’intermediario obbligato di ogni transazione commerciale nel subcontinente.

Ogni piccola impresa che entra nel “marketplace” è una fonte di dati inestimabile: cosa vendono, a chi, a che prezzo, con che frequenza. Amazon vede tutto, impara tutto, e poi — come la storia ci ha insegnato con i prodotti “Amazon Basics” — usa quei dati per competere direttamente con gli stessi commercianti che ospita.

Ma c’è un altro aspetto, ancora più insidioso, che riguarda l’infrastruttura fisica e logica su cui tutto questo si regge.

Il vero petrolio non è l’e-commerce, è il cloud

Sarebbe ingenuo pensare che questi 35 miliardi finiranno tutti in furgoni per le consegne o magazzini. La fetta più succulenta della torta è destinata a AWS (Amazon Web Services). L’obiettivo non è solo vendere dentifricio agli indiani, ma far sì che le banche, gli ospedali, le start-up e persino il governo indiano facciano girare i loro software sui server di Amazon.

È una strategia di lock-in infrastrutturale.

Già in passato AWS aveva annunciato piani per investire 12,7 miliardi di dollari in infrastrutture cloud in India entro il 2030, e il nuovo annuncio non fa che confermare questa direzione, potenziandola con l’iniezione di steroidi dell’intelligenza artificiale generativa. Costruire Data Center in loco (come nelle regioni di Hyderabad o Mumbai) è essenziale per ridurre la latenza, certo, ma serve anche a soddisfare i requisiti di residenza dei dati.

Tuttavia, avere i dati fisicamente in India non significa che siano al sicuro dallo sguardo dell’azienda americana.

Qui entra in gioco il conflitto di interessi. Amazon fornisce l’infrastruttura (AWS) su cui corrono i suoi concorrenti e, contemporaneamente, gestisce il mercato (Amazon.in) dove compete con i suoi clienti. Con l’aggiunta dell’AI, questo potere si moltiplica.

Immaginate un sistema di AI che ottimizza la logistica in tempo reale: chi avrà la priorità nelle consegne? Chi userà l’algoritmo di Amazon o chi cercherà di fare da sé? L’infrastruttura cloud diventa un “bene pubblico” gestito da un privato, con tutte le opacità del caso.

E mentre l’Europa cerca di costruire alternative sovrane (con scarsi risultati, ammettiamolo) o di imporre regole ferree sull’AI ad alto rischio, l’India si sta legando mani e piedi ai giganti della Silicon Valley in cambio di una modernizzazione rapida.

È un patto faustiano: infrastrutture all’avanguardia in cambio della sovranità sui dati dei cittadini.

Ma non è tutto rose e fiori nemmeno per il colosso di Bezos.

Chi paga il conto dell’innovazione?

Nonostante l’entusiasmo dei mercati e i titoli trionfalistici dei telegiornali, c’è chi inizia a sentire puzza di bruciato. Le autorità di regolamentazione indiane non sono del tutto cieche. La Competition Commission of India (CCI) ha già avuto diversi scontri con Amazon e Flipkart (di proprietà di Walmart) per pratiche anticoncorrenziali.

Questo nuovo massiccio investimento potrebbe essere letto come un tentativo di diventare “too big to fail”, troppo grandi per essere regolati.

Commentatori esperti di diritto della concorrenza hanno avvertito che investimenti multi-miliardari di questa portata potrebbero sollevare preoccupazioni su prezzi predatori e auto-preferenza. Se Amazon può permettersi di operare in perdita per anni grazie ai profitti di AWS e a iniezioni di capitale mostruose, quale start-up locale indiana potrà mai competere? L’innovazione indigena rischia di essere soffocata nella culla o, più probabilmente, acquisita e integrata nel monolite prima ancora di diventare una minaccia.

Inoltre, c’è la questione del lavoro. Amazon promette di supportare circa 3,8 milioni di posti di lavoro.

Ma di che lavori parliamo?

Ingegneri dell’AI pagati a peso d’oro? Forse una minima parte. La stragrande maggioranza sarà verosimilmente costituita da driver, magazzinieri e lavoratori della gig economy, gestiti da algoritmi che monitorano ogni loro pausa e ogni secondo di “inattività”. La “digitalizzazione” del lavoro porta spesso con sé una precarizzazione mascherata da flessibilità.

Senza contare i milioni di piccoli commercianti che, una volta saliti a bordo della piattaforma, scopriranno che l’algoritmo che oggi li premia, domani potrebbe renderli invisibili se non pagano per la pubblicità interna.

L’ironia finale è che questa massiccia espansione viene venduta come un successo del “Make in India”. In realtà, stiamo assistendo alla costruzione di una colonia digitale. I dati vengono estratti, processati da algoritmi proprietari americani e poi rivenduti sotto forma di servizi “smart”. Il valore aggiunto, la proprietà intellettuale e il controllo strategico rimangono saldamente nelle mani di un consiglio di amministrazione a migliaia di chilometri di distanza.

Mentre festeggiamo i miliardi che piovono dal cielo, dovremmo chiederci se stiamo costruendo autostrade digitali per il futuro o se stiamo semplicemente aiutando un gigante a costruire il recinto entro cui saremo tutti costretti a pascolare.

E se la storia della privacy online ci ha insegnato qualcosa, è che quando il servizio è così imponente, efficiente e onnipresente, il prezzo da pagare non è mai solo in rupie o dollari, ma in libertà.

Autore

Giulia Bianchi

Giornalista investigativa specializzata in privacy, sicurezza digitale e regolamentazione tech. Scettica per natura, crede nel giornalismo che fa domande scomode.

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